NOI SIAMO CHIESA
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La linea di “Avvenire” sul testamento biologico è in contraddizione con gli inviti di papa Francesco a un esplicito dialogo positivo con le “diverse visioni del mondo, le diverse convinzioni etiche e le diverse appartenze religiose”.
L’Avvenire di ieri, di oggi e ancora nel recente passato, ha come titolo di apertura di prima pagina la questione della legge sul fine vita. Da tempo editoriali e continui interventi contrastano in modo enfatico il progetto di legge in discussione con argomentazioni ripetitive che cercano di dare autorità soprattutto alle posizioni barricadiere di un piccolo gruppo di parlamentari di destra e di alcune associazioni ancora pronte a richiamarsi ai ruiniani “valori non negoziabili”. Quasi nascoste sono le posizioni, ampiamente presenti nel mondo cattolico, che sono di segno diverso. Ricorderò quella della rivista dei gesuiti “Aggiornamenti sociali”, quella di Mario Marazziti, portavoce di S.Egidio, che in quanto Presidente della competente Commissione della Camera ha contribuito alla redazione del testo in discussione, quella del prof. Francesco D’Agostino, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici e la ben nota appassionata lettera dell’allievo di don Milani Michele Gesualdi, ammalato di SLA, inviata ai parlamentari. Ci sembra che la vera e propria campagna del quotidiano cattolico voglia prendere la rivincita sui casi Welby ed Englaro, rispetto ai quali una riflessione autocritica di chi si comportò male nella Chiesa arriverà sempre troppo tardi.
La linea dell’Avvenire è quella di sostenere che la sua sarebbe anche la posizione del papa. Però la lettura dell’intervento di Francesco del 16 novembre su queste questioni non solo ricorda l’insegnamento tradizionale della Chiesa, disatteso nei due casi ricordati che fecero tanto scalpore, ma delinea anche come ci si debba comportare nello spazio pubblico su un tema così delicato . Questo brano illuminante del discorso del papa è stato ignorato. Esso parla di soluzioni condivise tenendo “conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza” “per trovare soluzioni-anche normative- il più possibile condivise” . Perché il silenzio su questa apertura alla pluralistica società civile e questo suo indiretto invito a non fare le barricate? Il testo in discussione tenta di dare dei binari minimi stabili, validi per malati, famigliari e sanitari, per i comportamenti che hanno a che fare con la difficile zona grigia del fine vita, densa di dubbi e di difficoltà, contenendo il tradizionale preponderante ruolo del personale sanitario, facilitando l’alleanza terapeutica, l’accompagnamento del malato e auspicando le cure palliative. Il testo è il prodotto di anni di discussione con le varie aree indicate dal papa di differente orientamento culturale con cui è necessario discutere in una società democratica. Le assillanti obiezioni hanno da tempo ricevuto argomentate risposte. Noi Siamo Chiesa, in ripetuti testi leggibili sul proprio sito, le ha esaminate e contraddette con attenzione. Perché insistere oggi in una linea che si dovrà accettare in futuro e sulla quale auspicabilmente si dovrà poi fare autocritica?
Vittorio Bellavite, coordinatore di Noi Siamo Chiesa
Roma 13 dicembre 2017
o, non è un bel giorno. La legge sulle Dat, i soldati in Niger
Non è stato un bel giorno per l’Italia, questo giovedì 14 dicembre 2017. Proprio per nulla, anche se ci sono numerosi politici e opinionisti che lo definiscono – come ormai si usa sin troppo spesso – «un giorno storico». Non è un bel giorno per l’Italia, perché purtroppo nasce male la legge sul fine vita o sulle Dat o sul biotestamento (chiamatela come volete), che anche su queste colonne di giornale e da diversi anni a questa parte avevamo chiesto di varare. Nasce, infatti, come frutto di un complesso (e anche benintenzionato) lavorìo e di un voto finale segnato dalla chiarezza di una vasta maggioranza parlamentare – imperniata per la prima volta sull’asse tra senatori del Pd e dei 5 Stelle –, ma senza la chiarezza normativa necessaria a scongiurare forzature e con un potenziale dirompente in grado di generare abbandoni terapeutici e forse persino incapace di evitare derive verso quell’eutanasia che, al pari del suicidio assistito, la legge in sé non prevede, ma che rischiano di essere innescate dall’incredibile e deresponsabilizzante esautoramento dei medici, dall’impostazione dirigista verso le strutture sanitarie pubbliche e private e dalla prevedibile spinta verso una nuova stagione di mirati contenziosi giudiziari.
Questa legge, insomma, non convince e non può piacere, e chi si spella le mani senza averla letta farebbe meglio a informarsi a dovere. E dovrebbe anche cominciare a riflettere con giusta intensità sulla gravità del colpo che, con leggerezza infelice, viene assestato al bene essenziale dell’alleanza terapeutica tra il paziente (con la sua libertà, le sue fragilità, le sue umanissime attese) e i medici (che sono chiamati a curarlo, agendo in scienza e coscienza). Siamo tra quanti credono che la generosa umanità del personale sanitario italiano e le naturali prudenza e saggezza dei piccoli e dei deboli eviteranno i danni più gravi, ma non possiamo tacere quanto deluda e allarmi la miopia e la retorica vuota dei troppi parlamentari che hanno votato “sì” straparlando del «diritto finalmente riconosciuto a una morte degna».
Chi ha mai negato questo diritto, costringendo a vivere indegnamente e nella sofferenza? Dove mai è accaduta una simile assurdità se non nelle propagande pro-eutanasia o pro-suicidio assistito? Perché, intanto, si sottace e nasconde (e non si attua al meglio) l’eccellente legge che l’Italia si è data per assicurare le cure palliative ai suoi cittadini, cure che servono, appunto, a cancellare il dolore e ad accompagnare all’ultimo traguardo, anche avvicinandolo, senza indifferenze e senza inutili accanimenti?
La «morte degna» non è un eroico e persino titanico esclamativo finale, ma il compimento di una vita rispettata in ogni suo momento e della quale davvero, e umilmente, ci si è presi cura.
No, non è stato un bel giorno per l’Italia, questo giovedì 14 che si è consumato nel cuore di dicembre. Perché il Ministero della Difesa ha confermato – e quasi nessun uomo politico e opinionista ha battuto ciglio – ciò che un giornale, ‘la Repubblica’, aveva rivelato di buon mattino. E cioè che la missione militare italiana di «addestramento» in Niger – annunciata sin dallo scorso maggio e appena confermata in quei precisi e ben limitati termini dal presidente del Consiglio dei ministri – sarà anche qualcosa di molto diverso, visto che comporterà pure l’impegno dei nostri soldati in «attività di sorveglianza e controllo del territorio». In parole povere, i militari italiani andranno – e idealmente andremo tutti noi con loro – a pattugliare le piste desertiche del grande Paese africano. E lì agiranno. Contrasto al terrorismo era l’obiettivo dichiarato dell’addestramento.
Ora salta fuori anche il contrasto ai trafficanti di esseri umani. Magari… Si annuncia piuttosto, e già se ne sono viste le prime prove a cura di «soldati addestratori » con altre uniformi, il perfezionamento della caccia a profughi e migranti irregolari. Cioè praticamente tutti. Come stupirsene del resto? La ‘caccia’ è parte inevitabile dell’operazione-saracinesca (ovvero di esternalizzazione dei confini d’Europa) che è stata immaginata e pianificata nelle terre chiamate Sahel e che a tutt’oggi rappresenta tristemente la porzione davvero operativa della cooperazione rafforzata euroafricana. Lo sviluppo può attendere, non il blocco contro gli scomodi attraversatori del mare di sabbia.
Protagonisti di drammi, speranze e storie di ordinaria eppure struggente umanità che anche su queste pagine – con fedeltà ai fatti e alle vittime – abbiamo cercato e cerchiamo di far ‘vedere’ grazie all’inerme forza dei reportage da Agadez (memorabili quelli di Matteo Fraschini Koffi), e dalle altre ‘Lampedusa del deserto’, delle testimonianze di sopravvissuti e di operatori umanitari, del poetico, dolente e spesso cristianamente furente ‘diario irregolare’ da Niamey, Niger, che padre Mauro Armanino condivide con noi a cadenza quindicinale giusto da tre anni. Sia chiaro: il valore umano degli italiani che vestono la divisa non è in discussione. L’hanno dimostrato e lo dimostrano ovunque: dal Libano all’Afghanistan, dal Kosovo all’Iraq. E nessuno dubita che i ‘nostri’ avranno in mano, per stile e cultura, borracce e non bastoni o, peggio, bombe davanti ai poveri che affrontano aride distese sognando un ‘al di là dal mare’.
Ma il contesto, il senso e il costruito consenso che rendono possibile e giustificano queste operazioni militari in terra saheliana sono dolorosamente chiari. Perché è del tutto chiaro che esse intendono raddoppiare la barriera frettolosamente e imperfettamente costruita nel Mediterraneo di fronte alla Tripolitania e alla Cirenaica per sigillare le violenze e le sopraffazioni dei rinchiusi nei piccoli e grandi lager libici, documentate, anche qui, da reportage della stampa internazionale e di ‘Avvenire’ (grazie alla lucidità e al coraggio del collega Nello Scavo) e tragicamente scolpite in un solido e rovente rapporto di Amnesty International sulle complicità europee con quei misfatti. Rapporto che abbiamo anticipato martedì 12 dicembre, e che troppo pochi sembra aver scosso. Si tira diritto, su ogni confine della vita. In questa Italia dove c’è chi fa festa per la ‘libertà di morire’ (che esiste – vertiginosa possibilità per ogni persona – e che nessuna legge umana dovrebbe mai azzardarsi a regolare), sembra non far notizia come dovrebbe e non suscitare emozioni e reazioni la morte dell’umanità che rischiamo di celebrare anche noi italiani, da guardiani d’Europa, d’una malintesa idea d’Europa. Ma se la vita e la dignità della vita non si amano e non si difendono sempre e interamente, accanto agli esseri umani, sono solo l’alibi di algide astrattezze e di letali indifferenze. Un alibi che non regge. Se a questo la politica si rassegna, il male è grande e il danno di più.
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